Premessa.
Durante la Peste Nera, sulla scorta delle opinioni del tempo, sorgono vari suggerimenti terapici e preventivi contro la patologia, che alcuni medici, nel tentativo di dimostrare le loro competenze, scrivono in opuscoli, noti come consilia de peste. Alcuni di questi saranno specificamente trattati nel prossimo capitolo, mentre nel presente si fornirà una sorta di riassunto generale proprio sulle cure e sulla profilassi.
1. I consigli terapici contro la peste.
Quando il morbo raggiunge l’Europa, nel 1347, i medici non ne comprendono l’eziologia. Purtroppo, partono da presupposti errati: sotto l’aspetto metodologico, quando si esamina la realtà, si prende sempre il via da un paradigma. Quest’ultimo, all’epoca, era quello di antichi Autori. Nello splendore delle università, nonostante l’intensità dell’insegnamento, a nessuno è consentito di non rispettare i testi di Ippocrate, di Galeno e di Avicenna (980-1037): le patologie sono causate da uno squilibrio dei quattro umori – flegma, sangue, bile gialla e bile nera – che si prova a correggere. Sorgono, così, vari rimedi. In particolare, cavare il sangue cattivo, tramite i salassi, diventa una delle terapie maggiormente consigliate contro la peste: per inciso, con il risultato di indebolire l’infermo e accelerarne la fine. Accanto a quelli, suggeriti prolungati clisteri, che dovrebbero eliminare dall’organismo i cibi che, con l’«aere corrotto», sono all’origine della putrefazione degli organi interni. Altri metodi sono gli smeraldi o gli zaffiri, pietre con specifica capacità di purificazione, moderatrici del calore interno e del sudore, da far ingoiare al paziente (intuitivamente ricco) dopo averli sbriciolati in un mortaio. La polvere ottenuta può essere aggiunta all’acqua oppure ai cibi. Autentica panacea è ritenuta la triaca, o theriaca: un amalgama disgustoso composto di oppio, mirra, incenso, timo, succo d’acacia, finocchio, anice, cannella, miele, ma anche da lucertola (privata delle zampe), carne di serpente e altro ancora. Non manca chi suggerisce di sanare la peste «con sciroppi cordiali». Inoltre, «gli ascessi esterni» devono essere «portati a maturazione con fichi e cipolle cotte, tritate e mescolate con lievito e burro», e poi «incisi e trattati con la cura delle ulcere». Ci sono anche sanitari che consigliano di spargere sui bubboni una miscela fatta di resina, radici ed escrementi umani. Accanto a tali rimedi, proposti da accademici, ve ne sono altri, di veri e propri imbonitori. Ad esempio, tal Dionisio Colle da Belluno, il quale – a fini anche preventivi – suggerisce un composto di fiori di pesco, centaurea minore, licopodio e nettare, decantando pure i benefici effetti del succo di sambuco e dell’euforbia, da immergere nel latte di capra. Un altro è certo Antonio da Padova, vantatosi, come lo stesso Dionisio Colle, di aver guarito, o preservato dal morbo, diverse persone. La peste, come osservato da Giovanni Boccaccio (1313-1375), è stata, fra l’altro, una circostanza favorevole proprio per i ciarlatani.
2. I medici della peste.
I sanitari del Trecento, durante la Morte Nera, soltanto di rado sono al capezzale degli infermi, specie per il timore di avvicinarsi agli stessi. In proposito, Guy de Chauliac (†1368), archiatra pontificio, sostiene che «i dottori non forniscono alcun aiuto concreto soprattutto perché sono terrorizzati di visitare il malato». Inoltre, diversi sono morti o fuggiti, e lo stesso medico poc’anzi indicato si sarebbe lasciato andare a una triste confessione: «per paura del disonore non osai fuggire. Tormentato continuamente dalla paura, cercai di proteggermi alla meno peggio». Altra testimonianza è quella di Marchionne di Coppo Stefani, al secolo Baldassarre Bonaiuti (1336-1386): «medici non se ne trovavano, perocché moriano come gli altri […]. Quelli che si trovavano, voleano smisurato prezzo in mano innanzi che intrassero nella casa, ed entratovi, tocavono il polso col viso volto adrieto, e da lungi volevono vedere l’urina con cose odorifere al naso». Ne discende, evidentemente, che ben pochi possono permettersi una visita, e che quest’ultima si risolve in una rilevazione del polso, eseguita con il viso rivolto all’indietro, e in un esame visivo delle urine da debita distanza. Quanto alle «cose odorifere al naso», si tratta di essenze aromatiche, quali mirra, ambra, lavanda, canfora e foglie di menta, oppure di una spugna imbevuta di aceto o ancora, in qualche caso, di uno spicchio d’aglio. In proposito, bene precisare che il celebre abbigliamento del medico della peste, completato da una sinistra maschera con un lungo becco, è attribuito a Charles de Lorme (1584-1678), un sanitario che avrebbe assunto notevole fama nel Seicento, per essere riuscito a curare, fra gli altri, il re di Francia e Navarra Luigi XIII (1601-1643) e Gastone, duca d’Orleans (1608-1660). Pertanto, con ogni probabilità, durante la pandemia del Trecento, quell’abito e quella maschera ancora non esistevano.
3. La profilassi contro la peste.
Al pari di quelli terapici, anche i suggerimenti preventivi sono diversi. Se le persone sane sono conviventi con un malato, è necessario che questo sia sistemato in alto, su un soppalco: difatti, giusta un principio della fisica – all’epoca, evidentemente, già noto – l’aria calda, che si riteneva corrotta, sale verso l’alto. In conseguenza, lo stesso appestato non avrebbe potuto contaminare quella più fresca, rimasta in basso, con le sue esalazioni. In tutti i casi, è necessario detergere il viso e le mani con acqua e aceto, purificare gli ambienti con essenze profumate o con il fuoco, evitare sforzi fisici e rapporti sessuali, capaci, gli uni e gli altri, di favorire l’inspirazione di miasmi o l’eccessivo riscaldamento del corpo. Bene non dormire nelle ore diurne o far bagni bollenti, e assolutamente da evitare l’esposizione ai raggi solari oppure ai venti caldi e umidi di provenienza meridionale. Opportuno seguire una dieta equilibrata, adatta a tenere lontani dall’organismo alimenti che possano provocare la putrefazione quali il pesce e i frutti di mare. Utile mantenere un atteggiamento ottimista e allegro, ma fondamentale stare ben distanti dal respiro degli appestati e, quando possibile, allontanarsi dai luoghi raggiunti da morbo. Nella valutazione di un contemporaneo, soltanto gli ultimi due consigli appaiono sensati. Gli stessi, però, consentono pure di intuire come gli uomini del Trecento avessero presto compreso che la peste è contagiosa.
4. I tentativi di prevenzione in alcune città. Cenni sulla peste a Venezia.
Proprio per la ragione appena accennata, almeno in talune città, si prova a predisporre alcune misure pro conservatione sanitatis. A Siena, e probabilmente anche altrove, sono proibiti i funerali, tanto che Agnolo di Tura scrive: «le campane non suonavano più». Ai cittadini di Firenze è vietato avere contatti con pisani e genovesi. A Venezia, già nel 1348, le autorità impongono regole che prevedono, in tempi rapidi, le sepolture di massa, l’incenerimento degli abiti e di altri oggetti appartenuti ai morti di peste, ma anche l’allontanamento delle carogne animali. Purtroppo, però, di là dell’esame sull’efficacia di tali misure, la peste è già entrata in quelle città. Proprio a Venezia, nei primi mesi di quel 1348, «sarebbe stato sufficiente camminare lungo le calli, affacciarsi nei campi e campielli e navigare attraverso i canali, si sarebbe notato sempre lo stesso desolante e tragico panorama: i cadaveri erano ovunque e non si riusciva, per l’elevato numero di decessi giornalieri, a rimuoverli tutti e in tempo per evitare che cominciassero a decomporsi insepolti. La morte coinvolgeva anche chi era incaricato al trasporto delle salme nei luoghi preposti per la sepoltura». Alla fine della pandemia, il centro lagunare avrà perduto fra il 50 e il 70 per cento dei suoi residenti, che prima della Peste Nera erano 120/150 mila.
5. La nascita della quarantena.
Soltanto anni dopo le autorità veneziane avrebbero assunto decisioni più adeguate nei confronti della peste. A far epoca dal 1374, la Repubblica inizia a controllare i navigli commerciali provenienti da luoghi colpiti dal morbo, respingendo tutti quelli ritenuti non sicuri, proprio a scopi preventivi. Tuttavia, è a Ragusa (odierna Dubrovnik, in Croazia) che, nel 1377, è promulgata una legge innovativa: tutte le persone provenienti da località in cui sono occorsi casi di peste devono restare in isolamento per un periodo di trenta giorni (cosiddetta trentina) prima di poter mettere piede in città. Le sanzioni, per i trasgressori, sono molto severe. Venezia segue presto l’esempio ragusano, ma il richiamato lasso temporale appare inadeguato. Naturalmente, all’epoca, nessuno conosce il periodo d’incubazione della peste (e neppure delle altre malattie): tuttavia, giusta la medicina ippocratica, le patologie facevano il loro corso entro un intervallo di quaranta giorni. Inoltre, era noto, fra gli intellettuali, come lo stesso numero ricorra più volte nella Bibbia: ad esempio, quaranta sono i giorni del Diluvio Universale, quelli in cui Mosè rimane sul monte Sinai e quelli che trascorrono dalla nascita di Gesù alla Sua presentazione al Tempio di Gerusalemme. In conseguenza, il periodo di isolamento stabilito per le navi e le persone provenienti da regioni infette è proprio quello di quaranta giorni. Nasce così la quarantena, termine ancora oggi in uso per indicare il «periodo di segregazione e di osservazione, al quale sono sottoposte persone e cose ritenute in grado di portare con sé i germi di malattie infettive». S’intende che, grazie ai progressi della scienza, sono ormai conosciuti i tempi di incubazione delle varie patologie, con la conseguenza che l’accennato periodo è variabile. Nel Quattrocento, la Repubblica veneziana avrebbe istituito un’autentica polizia sanitaria marittima, esiliando i navigli infetti o sospetti nei canali di Spignon e Fisolo, fra il porto di Malamocco e Poveglia, e le persone nell’isola di Santa Maria di Nazareth, detta Nazarethum. È possibile che in quest’ultima, nel 1422, si sia trasformato in ospedale un convento di monaci abituati ad accogliere i pellegrini infermi, di rientro dalla Terrasanta. In ogni caso, quell’isola, già nel 1403, è destinata al ricovero e all’osservazione dei malati di peste, o sospetti tali, provenienti dal mare. Luoghi analoghi sarebbero stati istituiti prima a Pisa, nel 1464, e poi a Genova, nel 1467 (o forse 1477). Poco dopo, sarebbero stati aperti lazzaretti a Firenze (1479) e Milano (1489).
6. Il caso di Milano.
Milano, nei terribili anni della Peste Nera, rappresenta un modello di prevenzione pressoché unico, almeno nella parte occidentale del vecchio continente. Naturalmente, pure in quel centro italiano, come in qualsiasi altro, la patogenesi del morbo non è conosciuta: tuttavia, i signori locali – Luchino Visconti (1292-1349) e suo fratello, l’arcivescovo Giovanni (†1354) – sono politici magari crudeli, ma anche scaltri e pragmatici. Non preme loro sapere qual è il meccanismo in base al quale s’instaura la peste: hanno capito, al pari degli altri, che questa è contagiosa, e quindi il loro solo interesse è che la medesima non si propaghi in città, provocando drammatici effetti. Nel 1348, il morbo è in tre case nelle immediate vicinanze di Milano. Queste, per ordine di uno dei Visconti (le fonti non chiariscono se Luchino o Giovanni), sono subito murate, con gli occupanti lasciati dentro a morire, di peste o inedia. Contestualmente, con notevole anticipo rispetto ai tempi, è imposto un lockdown: qualsiasi ingresso è rigorosamente vietato, tranne quello delle merci, che, per altro, sono scrupolosamente controllate. Tali misure, ancorché spietate e draconiane, oltre che assunte a dispetto dei negazionisti (eh sì… esistevano anche allora), consentono di mettere un freno alla diffusione e alle conseguenze del morbo, e Milano, al termine della pandemia, non sarà costretta a contare un altissimo numero di vittime. Giusta un resoconto dell’epoca e stime recenti, la peste uccide il 10/15 per cento dei circa 100.000 residenti.