I campi militari non sono mai stati luoghi per donne onorate: vi si trovavano soprattutto lavandaie, vivandiere e prostitute, ma i tre mestieri solitamente erano fusi, e più raramente vi andavano le mogli dei soldati, come accadeva ad esempio per gli stradioti – i ferocissimi mercenari greci e albanesi.
Nell’estate-autunno 1495 si verificò un’eccezione non da poco: era in corso la cosiddetta prima calata dei francesi in Italia e la città di Novara era stata occupata dal duca d’Orleans (1462-1515), che mirava a impadronirsi di Milano. La presenza del duca legittimo, Ludovico il Moro (1452-1508), era dunque richiesta al campo, tanto per motivare le truppe quanto per dirigere le operazioni.
Ludovico era però totalmente incapace in guerra, oltre che d’animo pauroso, e – dice il cronista Andrea Prato – aborriva già soltanto il sentir nominare cose atroci e crudeli, figurarsi andare in battaglia! Più capace di lui s’era rivelata la giovane moglie Beatrice d’Este (1475-1497) che, dapprima da sola, poi in sua compagnia, andò al campo, e lì con disinvoltura partecipava ai consigli e alle trattative, mediava in favore dei disertori, incitava i capitani, e perfino si faceva portare le teste mozzate dei francesi.
Ludovico, d’altronde innamoratissimo della moglie, non se ne separava mai, e anche stavolta l’aveva condotta con sé. La presenza della duchessa lì non era però esente da rischi: l’esercito non era certo composto da brava gente e spettava all’abilità dei capitani contenerne gli istinti criminali ed evitare così stupri e rapine ai danni della popolazione civile, cosa che – a differenza degli stranieri – gli italiani si preoccupavano di fare.
II. LA RISSA
Il 28 settembre, sul far della sera, scoppiò una violentissima rissa tra i mercenari alemanni – cioè tedeschi – di Ludovico e gli italiani, per cause poco chiare: il bottino forse, oppure una donna, come accadeva non di rado. Gli alemanni della Repubblica di Venezia, non sapendo cosa fosse, si unirono ai loro compatrioti contro gli italiani, “per forma ch’el campo era tutto sottosopra“.
Non bisogna immaginare che fosse una cosa da poco: gli alemanni – dice il Sanudo – erano “huomeni terribili et pericolosi” e queste risse erano vere e proprie battaglie, con tanto di armi e artiglierie, e talvolta facevano più morti che non i veri scontri tra nemici.
Era la terza volta che accadeva in meno di tre mesi e Il marchese di Mantova Francesco Gonzaga (1466-1519), capitano generale di Venezia, stavolta andò dal Moro chiedendogli di intervenire, tanto più che gli alemanni erano al soldo suo, ma Ludovico, troppo impaurito, non osava uscire dalla tenda. La sua risposta – secondo il Sanudo – era stata un balbettante: “ma, mia moier…” come a dire che non temeva tanto per sé, quanto per la moglie, “la più cara cossa” che avesse al mondo, e non poteva lasciarla da sola nel timore che fosse violentata o peggio uccisa.
Non aveva torto, poiché la minaccia era proprio quella, e Beatrice fu in quell’anno, a quanto pare, una donna particolarmente ambita, tanto che pure i francesi minacciavano di togliergli “la gloire“, ossia l’onore, la gloria. E la prospettiva d’essere violentata da qualche migliaio di soldati non dovette d’altronde rallegrare neppure la diretta interessata.
A queste sue riluttanze, la memorabile risposta del marchese fu: “mettetila ne li forzieri!” Ossia, se per lui era tanto preziosa, che la mettesse in salvo insieme agli altri gioielli.
Il racconto che ne fa Jacopo d’Atri, segretario del marchese, è un tantino diverso: il Moro “impaurito” corse da Francesco e lo supplicò “che per Dio” volesse salvare la sua Beatrice. Francesco “cum animo intrepido” subito montò a cavallo e si spinse fra gli alemanni, dicendo di essere uno di loro, cioè per nazione tedesco, poiché aveva madre tedesca e discendeva dalla casa di Baviera. Si fece spiegare la causa della lite, e quando gli dissero d’essere stati provocati dagli italiani, egli gli dette ragione e si mostrò dalla loro parte.
III. L’ASTUZIA
Gli alemanni però non volevano deporre le armi, dicendo che erano stati uccisi molti loro connazionali e che non si sarebbero fermati prima di aver compiuto una “crudelissima vendetta“. Francesco attuò allora uno stratagemma: dichiarò ch’erano stati uccisi molti più italiani che tedeschi – cosa non vera – e portò alcuni dei loro principali con sé a vederli. Nel frattempo aveva però mandato i suoi a rimuovere tutti i cadaveri dei tedeschi, fuorché dieci o dodici, lasciando solo quelli degli italiani.
Ignari dell’inganno, gli alemanni si acquietarono alquanto, e Francesco offrì tanti doni e promesse che alla fine li convinse a deporre le armi. Il Moro ebbe così salvi la vita, l’onore e la moglie e tutto insomma finì bene, tranne per quei sette carri carichi di morti che al mattino furono mandati a seppellire.
Jacopo d’Atri con questa commovente frase chiude il suo racconto: “quando Ludovico l’intese – che la pace era fatta cioè – restò il più contento homo dil mondo, parendoli havere reaquistato il Stato et la vita, insieme cum l’honore la mogliere; de la qual sola più che de tutto il resto temeva“.
IV. LE FONTI
– Cronica del marchese di Mantova, Deputazione di storia patria per la Lombardia, Archivio storico lombardo, Società storica lombarda, 1874, pp. 348-349.
– Marin Sanudo, La spedizione di Carlo VIII in Italia, Mancia del Commercio di M. Visentini, 1883, p. 620.