La peste di Francesco Petrarca

Introduzione.

Nel 1374 – ultimo anno della sua vita –Francesco Petrarca rileva che la la comunità ha vissuto con «questa peste, senza eguali in tutti i secoli», per ventisei anni, durante i quali è sopravvissuto a familiari ed amici, molti dei quali uccisi proprio da quella patologia. Il poeta e filosofo, una delle voci più suggestive del Trecento, in maniera profonda e personale, racconta della sofferenza sociale, ponendo l’accento sul dolore causato dai tanti decessi. Significativo il principio delle sue Epistole: «l’anno 1348 ci lasciò soli e indifesi»: nella mente di Petrarca si agita il dubbio se l’amore e l’amicizia possano ancora sussistere dopo che in quell’anno la Peste Nera ha flagellato la penisola italiana.

1. Petrarca acuto osservatore della pandemia.

Il poeta toscano è un errabondo, che di rado si sofferma a lungo in una località. Alterna alcuni periodi di isolamento nelle campagne ad altri trascorsi in varie città. Proprio tale mobilità lo trasforma in un singolare ed acuto osservatore della Morte Nera. Egli comprende presto che si tratta di una pandemia. Sul finire del 1347 – poco tempo dopo che alcune galee hanno portato il morbo a Messina – Petrarca è a Genova, ove molte persone iniziano a morire. La malattia si diffonde rapidamente, e la relativa consapevolezza del filosofo compare in un’epistola scritta da Verona il 7 aprile 1348. Nel respingere l’invito di un parente di rientrare nella natia Toscana, così si esprime: «la peste di quest’anno ha calpestato e distrutto il mondo intero, soprattutto lungo la costa». Qualche giorno dopo si sposta a Parma, e qui apprende che un suo parente, Franceschino degli Albizzi, di rientro dalla Francia, è deceduto nel porto di Savona. Petrarca, colpito per la prima volta negli affetti familiari, ottiene un’ulteriore prova della diffusione del morbo e maledice il drammatico tributo che «quest’anno pestilenziale» sta esigendo.

2. 1348: scompaiono amici, mecenati… e Laura.

Con il procedere del 1348, Francesco Petrarca si sente sempre più assediato da sofferenza e terrore. La morte giunge in maniera repentina e continua. Nel mese di giugno, un amico che era stato ospite a cena da lui, scompare il mattino dopo, e la stessa sorte subiscono, nel giro di pochi giorni, i familiari dello stesso. Nella poesia Ad Seipsum, il toscano, toccato dalla triste esperienza, ipotizza un futuro in cui le persone non avrebbero compreso quanto fosse stato drammatico vivere in «una città piena di funerali». Ed è proprio in città che il poeta rimane dopo che alcuni banditi uccidono uno dei due suoi amici che viaggiavano dalla Francia all’Italia. L’episodio, infatti, fa decadere l’idea, che Petrarca coltivava, di ritirarsi in campagna, per sfuggire alla peste, con alcuni degli affetti più cari. A luglio, il morbo uccide il principale mecenate dello scrittore toscano, il cardinale Giovanni Colonna. Perdono la vita anche altri membri della medesima illustre famiglia, che Petrarca aveva servito anni prima ad Avignone. Proprio in questo centro, il poeta aveva conosciuto Laura de Noves, una nobildonna nata nel 1310. Giusta quanto afferma nel suo Secretum, uno scritto in latino sviluppato come una sorta di dialogo intimo tra il poeta stesso e sant’Agostino di Ippona (354-430), Petrarca la vede per la prima volta il 6 aprile del 1327, nella chiesa di Santa Chiara, appunto ad Avignone. Se ne innamora all’istante, e nel Canzoniere, opera che comprende 366 componimenti in rima, dedicato proprio a «Madonna Laura», così avrebbe ricordato quel momento:

«Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro

per la pietà del suo Factore i rai,

quando i’ fui preso, et non me ne guardai,

ché i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro».

Alcuni esperti, per la verità, ritengono che Laura de Noves non vada identificata con la donna celebrata dallo scrittore toscano, ed abbia rappresentato soltanto un espediente, usato dallo stesso Petrarca, per far riferimento al laurus, l’albero sacro dedicato al dio Apollo, protettore della poesia. Qualunque sia la verità, la francese perde la vita, a causa della peste, in quel 1348 e l’aretino avrebbe scritto versi immortali:

«Pallida no, ma più che neve bianca

che senza venti in un bel colle fiocchi,

parea posar come persona stanca.

Quasi un dolce dormir ne’ suoi belli occhi,

sendo lo spirto già da lei diviso,

era quel che morir chiaman gli sciocchi:

Morte bella parea nel suo bel viso».

3. L’«assenza di amici».

Francesco Petrarca piange l’«assenza di amici». L’amicizia, appunto, è la sua gioia, e nel contempo il suo dolore. Scrive epistole a chi è ancora vivo e ne rilegge altre, già vergate, indirizzate ai defunti, scegliendo le migliori per la pubblicazione. Naturalmente, in un’epoca in cui il mondo è flagellato dal morbo, la corrispondenza può diventare penosa. Lo scrittore toscano si preoccupa della salute dei suoi amici quando questi non rispondono celermente. Nel mese di settembre del 1348, si rivolge quasi con angoscia al monaco benedettino, e cantore, Ludwig van Kempen, soprannominato Socrate: «Liberami da queste paure il più presto possibile con una tua lettera». Petrarca teme che «la contagiosità della peste ricorrente e l’aria malsana» abbiano ucciso l’amico, ma questi, anche se non in tempi rapidi, risponde, rassicurandolo. La peste lo ha risparmiato. Purtroppo, soltanto temporaneamente: il benedettino morirà nel 1361, durante un ritorno della stessa malattia.

4. La fine del 1348 e il 1349.

Sul finire dello spaventoso 1348, Petrarca prevede che le persone sopravvissute al primo attacco del morbo debbano prepararsi a nuove recrudescenze dello stesso. Osservazione molto acuta, che si rivelerà corretta. Nel corso dell’anno successivo, il poeta continua ad elencare le vittime della peste e a descrivere i suoi drammatici effetti. La morte è implacabile e la sua falce colpisce, fra i tanti, lo stilnovista Sennuccio del Bene, conosciuto da Petrarca anni prima, ad Avignone. Nel mese di marzo, il letterato è a Padova, e sta cenando con il vescovo, una sera, quando giungono due monaci. Questi informano i commensali che il monastero francese di Méounes-lès-Montrieux, visitato da Petrarca nel 1347, è stato investito dalla peste. Il priore si è dato vergognosamente alla fuga con altri religiosi, e fra quelli rimasti il morbo ne ha risparmiato soltanto uno. Il sopravvissuto è Gherardo, fratello minore del poeta. Questi gli scrive immediatamente, esprimendo l’orgoglio di avere in famiglia un uomo così coraggioso. Proprio a Padova, sempre nel 1349, Petrarca trova nel signore locale, Giacomo (o Jacopo) II da Carrara (†1350), il suo nuovo protettore. Quegli, grande ammiratore del letterato toscano, lo nomina canonico del duomo – carica che garantisce a Petrarca una rendita annuale – e gli assegna una confortevole abitazione. Il poeta, però, la usa occasionalmente, poiché costante preda del suo irrefrenabile desiderio di viaggiare. Nell’anno in parola, è a Mantova, a Ferrara e a Venezia. Nel corso dei suoi spostamenti, osserva la mancanza di persone nelle città, i terreni incolti nelle campagne, l’inquietudine di un «mondo afflitto e quasi deserto». Nel centro lagunare conosce il doge, Andrea Dandolo, e ne diventa amico. Per inciso, vero che il loro rapporto, in seguito, si sarebbe deteriorato, ma altrettanto certo che Petrarca, dopo il decesso dello stesso doge, avvenuto nel 1354, lo avrebbe a lungo rimpianto sia come persona sia come umanista.

5. 1350: Francesco Petrarca conosce Giovanni Boccaccio.

Nel mese di ottobre del 1350, Petrarca si reca a Firenze, ove incontra per la prima volta Giovanni Boccaccio (1313-1375). Nel centro toscano, gli effetti della peste sono ormai meno drammatici rispetto a due anni prima, ma le sue conseguenze sono ancora tangibili, come una ferita non del tutto rimarginata. Boccaccio sta scrivendo l’opera destinata a diventare celeberrima: il Decameron. Non esistono tracce di discussione dei due letterati sul morbo, ma è certo che il fiorentino legge avidamente la poesia e la prosa dell’aretino, sovente copiandone lunghe parti nei suoi quaderni. È l’inizio di un’amicizia che sarebbe durata fino alla loro morte, occorsa a circa un anno e mezzo di distanza l’una dall’altra. E non ci sono dubbi che è proprio la scrittura della prima peste di Petrarca a consentire a Boccaccio di completare la propria visione di come il 1348 sia stato l’anno in cui il loro mondo è cambiato.

6. 1351: Petrarca inizia a commemorare gli amici scomparsi.

Nel 1351, il letterato toscano inizia a ricordare le persone amate, ormai scomparse, sulle pagine del Virgilio (meglio noto come Virgilio Ambrosiano), che lungamente aveva curato. L’opera – impreziosita da uno splendido frontespizio di Simone Martini (1284-1344) – è una sorta di codice costituito da trecento fogli, su cui sono manoscritte le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide di Virgilio (70-19 a.C.), commentate da Servio Mario Onorato, filologo latino vissuto fra il IV e il V secolo, ma anche quattro Odi di Orazio (65-8 a.C.) e l’Achilleide di Stazio, poeta romano del I secolo. Petrarca registra anzitutto il decesso, occorso tre anni prima, dell’amata Laura: «ho deciso di scrivere il duro ricordo di questa dolorosa perdita, e l’ho fatto, suppongo, con una certa amara dolcezza, proprio nel luogo che tanto spesso mi passa davanti agli occhi». Il poeta, con la sua eloquenza, vuol rendere la donna immortale, e non dimenticare la sofferenza di un istante che incide profondamente sulla sua anima e risveglia la coscienza dell’implacabile trascorrere del tempo. Giovanni Boccaccio forse si domanda se Laura sia mai esistita al di fuori dell’immaginazione dell’amico, ma di certo mai ne mette in discussione la scelta nel ricordare quel 1348 come trasformativo.

7. 1359-1363: la peste flagella ancora l’Italia.

Nel 1359, la peste torna in Italia, colpendo soprattutto Milano, ove Petrarca risiede dal 1353 dopo un soggiorno di circa due anni ad Avignone, città in cui si era più volte soffermato fra il 1326 e il 1341, salvo recarsi pure a Parigi, Gand, Liegi, Aquisgrana, Colonia, Lione e Lombez. In quest’ultimo centro, nel 1330, il letterato toscano aveva conosciuto il monaco benedettino, e cantore, Ludwig van Kempen, il Socrate, già accennato nella prima parte del presente capitolo, cui Petrarca avrebbe dedicato la raccolta epistolare delle Familiares. Lo stesso aretino definisce «pubblicamente rovinosa» l’epidemia – «quell’esplosione di peste» – ma anche «insolita», atteso che Milano «fino a quel momento era stata immune da tali mali». Il 10 luglio 1361, proprio di peste muore Giovanni, figlio del Petrarca, che annota il tristissimo evento sul suo Virgilio. Nel medesimo anno, il poeta, per sfuggire al morbo, è partito per Padova, ma l’ostinato rampollo ha scelto di non seguirlo. Sempre nel 1361, Francesco Petrarca scrive all’amico fiorentino Francesco Nelli, detto Simonide, che piange la scomparsa di Socrate, ucciso in quell’anno dalla peste, ad Avignone. Il letterato toscano, addolorato, aggiunge una nota nel suo Virgilio. Nel periodo, Petrarca – che si trattiene anche a Venezia, pure raggiunta dalla patologia – respinge gli inviti degli amici ad allontanarsi dai centri urbani, magari trasferendosi nelle campagne circostanti il Lago Maggiore. Il poeta rifiuta di cedere al terrore e commenta: «è accaduto spesso che una fuga dalla morte diventi una fuga verso la morte». Nell’estate del 1363, la peste uccide il richiamato Francesco Nelli, il corrispondente prediletto di Petrarca: è Simonide, appunto, a spedirgli il maggior numero di epistole (trenta quelle attualmente conservate) e colui che più di ogni altro ne riceve. La morte lo raggiunge mentre è in servizio a Napoli, città evidentemente investita dal morbo. L’aretino gli avrebbe dedicato la collezione di lettere delle Seniles, e ne avrebbe pianto la morte nella terza epistola, indirizzata a Giovanni Boccaccio.

8. Francesco Petrarca e gli astrologi.

Una nuova ondata di peste flagella dunque la Penisola, ma anche la Provenza. Nel 1361, ad Avignone e nel Contado Venassino – un’antica regione comprendente le aree comprese tra i fiumi Rodano e Durance e il Mont Ventoux – la malattia uccide, fra i tanti, nove cardinali, il camerlengo ed il tesoriere pontificio. Nel periodo, il letterato aretino esprime una feroce opinione sul compito che gli astrologi svolgono nell’illustrare il ritorno del morbo e nel prevederne il corso. Il poeta ritiene che le loro autoproclamate verità siano fortuite: «perché fingete profezie a fatti avvenuti e chiamate verità il caso?». Egli disapprova gli amici che ascoltano gli oroscopi, considerandoli una falsa scienza basata sull’uso inadeguato dei dati astronomici. Quando la peste investe ancora Firenze, nel 1363, Petrarca aumenta le sue critiche nei confronti degli astrologi, i quali affermano di poter ipotizzare il periodo in cui la malattia lascerà quella città e le altre. Nel mese di settembre, in una lettera all’amico Boccaccio così scrive: «non sappiamo cosa sta succedendo nei cieli, ma loro [gli astrologi] dichiarano impudentemente e avventatamente di saperlo». L’aretino ha compreso che l’epidemia è una straordinaria occasione di guadagno per quegli uomini, che vendono le loro inutili previsioni a «menti e orecchie assetate», ad un popolo terrorizzato che pende da ogni loro parola. Francesco Petrarca vuole una risposta seria sull’epidemia, dipendente da strumenti migliori rispetto alla cosiddetta «scienza delle stelle».

9. Il rapporto di Petrarca con la medicina.

Il rapporto del letterato toscano con la medicina è di complessa definizione. Stretta amicizia, nel 1370, con Giovanni Dondi dell’Orologio (†1388) – uno dei più celebri sanitari della sua epoca – ne avrebbe sempre rifiutato le raccomandazioni, distinguendo in lui l’amico, appunto, con cui è sovente d’accordo, dal medico da cui dissente radicalmente. Proprio al Dondi, che prova a difendere la validità della sua scienza, l’aretino avrebbe risposto: «vedo medici sani che si ammalano e muoiono, dunque perché dite agli altri di continuare a sperare?». Circa un ventennio prima, sul finire del 1351, il pontefice, Clemente VI, nato Pierre Roger (†1352), è ammalato. Nel mese di febbraio dell’anno successivo, Petrarca gli spedisce una lettera in cui gli augura una pronta guarigione, ma suggerisce, anche, di affidarsi ad un solo medico e di avere fiducia soltanto in lui. Il letterato chiarisce le sue raccomandazioni in un’epistola inviata a Boccaccio qualche settimana dopo: «il letto del papa è letteralmente assediato dai medici. I quali medici non sono mai volontariamente d’accordo l’uno con l’altro, perché o si vergognano di ammettere di seguire un predecessore o un collega o perché hanno un disperato bisogno di dimostrare che stanno inventando qualcosa di nuovo». In sostanza, il poeta sostiene che un sanitario noto per la sua eloquenza dovrebbe essere evitato, poiché minaccia per la vita. Il pontefice, quindi, deve scegliere un suo medico – il solo che si occuperà di lui – non per la sua dialettica, ma per le sue doti intellettuali e morali. Naturalmente, alla lettera di Petrarca segue un’irata replica dei sanitari, e di uno in particolare. Il suo nome non è conosciuto, ma è certo che il letterato, nel 1355, verga la sua Invectivarum contra medicum quendam libri IV, un trattato successivamente inviato in copia a Giovanni Boccaccio, in cui esclama animosamente: «medico fa il tuo mestiere di meccanico ti prego; stai attento se puoi, se no uccidi e chiedi un prezzo quando hai ucciso. Questo non è permesso a nessun imperatore o re, ma solo a te, al signore della vita e della morte, come ti vanti, dalla cecità del genere umano. Usa un privilegio mortale e fatti pagare la mercé del tuo disdetto; ma come potresti usare con un inaudito sacrilegio di subordinare la retorica alla medicina, la padrona alla serva, un’arte liberale ad un’arte meccanica». Nondimeno, lo stesso Petrarca scrive pure: «haec non adversus medicinam – quod saepe testatus sum – neque adversus excellentes medicos, qui irasci non debensint, semper rari, nostra sint etate rarissimi, sed adversus te delirantesque similiter dicta sint», ossia «queste cose non sono contro la medicina – come ho spesso testimoniato – né contro gli ottimi medici, che non dovrebbero adirarsi se sono sempre rari e rarissimi nella nostra epoca, ma contro i deliranti tuoi simili». In conseguenza, gli studiosi contemporanei tendono a considerare l’Invettiva, alternativamente, come difesa della buona medicina nei confronti dei cattivi praticanti; come un attacco personale contro un singolo medico; come contrasto ad una posizione averroista nella scienza. Pertanto, se il poeta aretino, per un verso, appare scettico e polemico nei confronti della medicina (specie nei confronti dei sanitari che manifestano eccessive certezze e rivendicano troppa autorità), per un altro verso rispetta «gli ottimi medici», ossia quelli che possiedono conoscenze, esperienza, onestà e umiltà. L’ignoranza, che anche i medici dovrebbero ammettere, come un primo passo verso l’apprendimento, è «pestifera», e la peste, appunto, è una malattia per cui non esiste una cura. Il morbo, da solo, non rivela il fallimento della medicina, ma ne mostra i limiti.

10. 1363-1364: la peste lascia Venezia. Petrarca conosce Arquà.

Nel mese di dicembre del 1363, Francesco Petrarca è a Venezia, ove si rende conto di un certo appiattimento locale della curva epidemica. In effetti, è attualmente noto che il morbo, in quel periodo, abbia lasciato la città lagunare, dopo aver ampiamente seminato dolore e morte. Tuttavia, il letterato non ritiene che la peste sia finita anche altrove: «ancora infuria ampiamente e orribilmente». L’aretino, ad ogni modo, non sembra aver paura: regala il ritratto di una Venezia non in grado di seppellire i suoi morti, o di piangerli a dovere, ma appare uomo che ha imparato a convivere con la terribile patologia, che tempo prima ha definito «breve e fatale». Ben diversa dalla scabbia – «una malattia lunga e faticosa» – di cui si ammala e che lo conduce, nella primavera del 1364, presso le terme di Abano. Ed è proprio in tale circostanza che il poeta conosce il paesino di Arquà (oggi Arquà Petrarca). Se ne innamora a tal punto che, circa sei anni dopo, avrebbe deciso di stabilirvisi definitivamente.

11. 1366-1368.

Nel 1366, il letterato toscano conclude il suo De remediis utriusque fortunae (Rimedi per l’una e per l’altra fortuna, oppure sorte), iniziato anni prima. Si tratta di una raccolta contenente 254 dialoghi, in prosa latina, fra entità allegoriche. Fra tali dialoghi, uno è sul morbo che flagella il mondo in quegli anni: «ho paura della peste», sostiene la Paura, manifestando l’ansia per quel «pericolo onnipresente». La Ragione risponde che il timore per quella malattia, concretamente, non è «nient’altro che paura della morte». Quanto ai superstiti, l’aretino evidenzia come molti siano stati indegni della loro fortuna. Sono decedute tante persone buone, mentre i «parassiti», sono stati «così resistenti» che neppure la peste «può sterminarli». Evidente dimostrazione di come il morbo, durante la pandemia, o nelle ondate successive, abbia ucciso senza alcuna distinzione. La morte mai colpisce con giustizia. Un anno dopo, nel 1367, Petrarca è a Verona, ove, in tempi migliori, presso una biblioteca monastica, ha ritrovato con gioia alcune lettere perdute di Cicerone. La città ha sofferto moltissimo, sia durante la Peste Nera sia nei ritorni della patologia, ma ci sono segni di ripresa. Naturalmente, il letterato non può affermare che Verona, appunto, o altri centri da lui conosciuti, siano splendidi e prosperi come lo erano prima dello spaventoso 1348. In un’epistola vergata nel 1368, il poeta ricorda come Padova, vent’anni prima, «sia stata violentemente colpita dal flagello della peste» e come in seguito non sia stata «più pari a se stessa», diventando «sicuramente diversa». Sorte analoga hanno subito altre città, quali Pavia, Siena, Arezzo, Perugia: «la condizione è uguale per tutte; esse non sono più oggi quello che erano ieri». Aggiunge Petrarca: «per tutta Italia e tutta Europa, ovunque troverei nuove ragioni a confermare la mia tesi». Persino «l’Egitto e la Siria e tutta l’Asia Minore non … stanno meglio di noi». Del resto, il morbo è stato – ed è ancora – «una piaga universale», capace «di svuotare il mondo», anche perché malattia che «non scompare davvero da nessuna parte». Destinatario della missiva è Guido Sette, al tempo arcivescovo di Genova ed amico di lunga data del Petrarca, che lo tramanda come uomo minuto e fragile, ma forte d’animo, «sottile di ingegno, grave nel giudicare e soave nella conversazione». Purtroppo, quando il corriere arriva, appunto, a Genova, Guido Sette è già morto, consumato dalla gotta. La data esatta del decesso è ignota, ma nessun dubbio che le ultime volontà del pastore siano state redatte l’8 dicembre 1367. In conseguenza, la morte, appunto, va plausibilmente collocata nelle settimane immediatamente successive. Di certo, sul finire del mese di febbraio del 1368, la cattedra risulta già vacante.

12. 1370.

Nel 1370, la peste flagella ancora l’Italia centrale, uccidendo, fra i tanti, Tommaso del Garbo, uno dei più celebri medici dell’epoca, probabilmente a Firenze. Petrarca lo ha conosciuto qualche anno prima, a Pavia, ne è diventato amico, e in una lettera ricorda come quegli, durante una visita effettuata nel 1369, lo abbia trovato «in ottima salute». In altra epistola, del 17 novembre 1370, il poeta aretino ne tramanda un ritratto, descrivendolo come sanitario famoso, ma anche come uomo forte e virile, oltre che ghiotto di frutti – fichi, mele, ciliegie – che amava mangiare a sazietà, «come i cavalli fanno del fieno». Eppure, la peste si è preso anche lui. Neppure i migliori terapeuti possono sfuggire a quella patologia. Ulteriore prova, per il letterato, di come il morbo non sveli il tracollo della medicina, ma ne evidenzi i limiti.

13. 1371-1373.

Nel 1371, la peste investe di nuovo la Repubblica di Venezia, colpendola duramente soprattutto in estate. Petrarca, ancora una volta, rifiuta gli inviti, provenienti da più parti, di allontanarsi dall’area colpita. Ammette che i centri urbani sono di nuovo pericolosi, poiché nelle «fauci di una pestilenza che infuria in lungo e in largo», ma preferisce restare ad Arquà, «un luogo molto piacevole e salutare». Dalla sua casa nel bellissimo borgo, l’aretino scrive lettere agli amici e perfeziona la sua raccolta di poesie, ma nella stessa continua a ricevere tragiche notizie dai luoghi flagellati dal morbo. Nel 1372, a Perugia, muore Philippe de Cabassoles, che Petrarca aveva conosciuto sul finire degli anni Trenta del secolo quando aveva soggiornato a Valchiusa, sita nella diocesi di Cavaillon, di cui lo stesso de Cabassoles era vescovo dal 1334. In seguito, questi sarebbe via via diventato reggente del Regno di Napoli, rettore del contado Venassino, patriarca di Gerusalemme, cardinale e legato pontificio, prima di spegnersi, appunto nel 1372, dopo uno scambio di epistole con il poeta aretino, il cui contenuto conferma la forza dell’amicizia che li unisce da tanto tempo. Il letterato, con tristezza, ne registra il decesso nelle pagine del suo Virgilio – «ahimè, ormai sono quasi solo» si legge nella sua nota – e gli dedica il De vita solitaria, completato nel 1356. Molto in sintesi, un trattato, in prosa latina, in cui la solitudine è considerata condizione necessaria per la vita contemplativa, tanto per gli ecclesiali quanto per i filosofi o pensatori. In sostanza, secondo l’Autore, l’ideale di vita è quello del raccoglimento nella pace agreste, dedicato agli studi letterari e alla riflessione religiosa. Nel 1373, Petrarca, per ragioni ignote, ammette di aver letto il Decameron, terminato vent’anni prima. L’aretino sostiene che una copia gli sia misteriosamente arrivata, ma appare difficile credere, obiettivamente, che non avesse conosciuto quell’opera fino a quel momento. In realtà, il poeta sostiene di aver scremato, più che divorato, il libro: «se dovessi dire di averlo letto, mentirei, perché è molto lungo, essendo stato scritto per il volgo e in prosa». Nondimeno, Petrarca non denigra la raccolta di novelle del Boccaccio: si tratta soltanto di una battuta fra due grandissimi autori. Al contrario, il letterato giustifica le cadute morali dell’amico nei racconti più sboccati, poiché gradisce l’austerità del suo messaggio: il rilievo di quanto l’avidità, l’arroganza, la lussuria, la corruzione di Stato e Chiesa partecipino alla cova di un mondo pestilenziale. Soprattutto, Petrarca loda la prima parte del Decameron, ammirando la splendida e drammatica descrizione di Firenze durante «quel tempo di peste».

14. 1374.

Nel 1374, la peste torna a Bologna, città in cui, nel 1320, il notaio ser Petacco (†1326), padre del poeta, lo aveva inviato per studiare diritto. Una materia verso la quale Francesco, all’epoca sedicenne, provava disinteresse e fastidio, al punto di abbandonarla dopo il decesso dello stesso genitore per dedicarsi agli studi classici. Scelta decisamente azzeccata… In ogni modo, proprio nel 1374, il letterato risponde all’amico Pietro da Moglio (1313-1383), che insegna retorica proprio a Bologna, e gli descrive le terribili conseguenze del morbo nel medesimo centro. Petrarca lo invita a raggiungerlo ad Arquà, ma l’illustre accademico respinge l’offerta, citando lo stesso aretino come fonte di ispirazione per restare al suo posto. In ulteriore replica, il toscano rileva: «molti fuggono, tutti hanno paura, tu non sei né l’uno né l’altro – splendido, magnifico! Perché cosa c’è di più sciocco che temere ciò che non si può evitare con qualsiasi strategia, e che si aggrava con la paura? Che cosa c’è di più inutile che fuggire da ciò che vi troverà sempre, ovunque fuggirete?». Nondimeno, Petrarca gradirebbe la compagnia dell’amico nell’«aria salubre» del borgo in cui risiede, ma non può garantire che l’aria stessa rimanga sempre tale. Anzi, sposando la teoria miasmatica, al tempo predominante, sostiene che l’aria, appunto, è «un elemento infido e instabile». Poco tempo dopo, nella notte fra il 18 e il 19 luglio di quel medesimo 1374, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, Francesco Petrarca muore, ma non di peste. La causa non è del tutto chiara: alcune fonti parlano di sincope (erroneamente, poiché questa è «una perdita improvvisa e temporanea di coscienza caratterizzata da insorgenza rapida, breve durata e recupero completo e spontaneo»), altre di colpo apoplettico ed altre ancora di «vari disturbi che lo tormentarono negli ultimi anni». In ogni modo, nel suo testamento, il poeta, scrittore e filosofo toscano lascia, fra l’altro, cinquanta fiorini a Giovanni Boccaccio «per un cappotto invernale per i suoi studi e il suo lavoro di studi notturni». Non è noto se l’Autore del Decameron abbia effettivamente acquistato quel capo: di certo, circa un anno e mezzo dopo – il 21 dicembre 1375 – avrebbe raggiunto l’amico «nel sommo cielo con eterna vita».

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