La nostra concezione di Medioevo: il linguaggio

La nobiltà

La nostra concezione di nobiltà è legata all’idea di nobiltà di sangue che è tipica dell’Ancien Régime, ed è perfettamente sintetizzata dal famoso dialogo tra il Poeta e il Nobile di Giuseppe Parini, pubblicato nel 1757 in piena età illuministica, che riassume ormai l’incancrenirsi della figura del nobile che tenta di salvare solo la dignità avendo perso proprietà e soldi:

Poeta. Voi non potreste pensar di meglio. Ma ditemi, se il cielo vi faccia salvo: chi di noi due giudicate voi che sia tenuto a rispettar l’altro?

Nobile. Nol vedi tu da te medesimo, balordo? Tu déi rispettar me.

Poeta. Voi volete dire adunque che voi siete mio superiore.

Nobile. Sì, certo.

Questo è un breve spunto per capire l’incancrenirsi della figura nobiliare, specialmente nella veste di fannullone e sanguisuga della società che si può trovare nella pungente ironia di Parini.

Com’era invece la situazione nel Medioevo? E’ impossibile rispondere semplicemente prendendo spunto da un periodo così massiccio, quindi vanno fatte alcune distinzioni.

Le linee di fondo sono, comunque, che non esisteva una giurisdizione o un modo di vivere unico per tutta la categoria nobiliare, che peraltro aveva come unica prerogativa la capacità di utilizzare le armi e avere una storia familiare alle spalle di legami con altre realtà di ordine militare. Far parte dell’ordine dei “bellatores“, cioè coloro che combattevano, secondo quello che è il rigido schematismo dell’ordinata società medievale (che, comunque, non fu rispettato pienamente e pedissequamente nemmeno nel basso Medioevo, specialmente se riflettiamo sulla realtà urbana del centro-nord Italia), serviva a mantenere determinati privilegi: preminenza nella società, indulgenza giudiziaria – se non proprio impunità – e comunque un alto prestigio. Ma, soprattutto, una base finanziaria, e quindi terriera, ampia; quindi la capacità di gestire un patrimonio fondiario, con tutto ciò che ne deriva: non solamente la gestione di un “portfolio” di terre, ma anche di un capitale umano di vario tipo, sparso su un profilo geografico spesso confusionario e legato a una giurisprudenza orale, fatta di antichi patti e di contratti “sanguigni“.

A questo si può aggiungere che la società nobiliare non fu mai veramente chiusa nel Medioevo: se non era certo facile farsi “assumere” nel ruolo di nobili, per via del massiccio investimento in tempo e denaro che richiedeva l’addestramento militare, e anche per via delle sempre più stringenti regole della cortesia e della largesse (che servivano a non rendersi veri e propri cafoni nell’alta società), comunque non era prevalente l’idea di “sangue blu“, cioè di chiusura di casta, alla quale siamo abituati da certe rievocazioni, che secondo la nostra concezione sarebbe stata irrimediabile. In realtà la nobiltà vera si riconosceva, ma c’era una diluizione veloce, diversa dalle innumerevoli generazioni necessarie per essere innestati nel ramo della noblesse de sang. Essere nobili si poteva guadagnare sul campo, con un proficuo matrimonio, grazie a intrighi o attraverso il legame con l’alta società ecclesiastica; ovviamente ognuna di queste alternative era ricca di sorprese e di spine.

Tra i vari esempi che si possono scegliere per identificare la vita nobiliare spiccano per originalità quello di Beatrice de Planissoles, nobile occitana del famoso villaggio di Montaillou e quello notevole, e ben più conosciuto, di Guglielmo il Maresciallo.

Figura eminente all’interno del famoso villaggio della zona sud-occidentale della Francia, descritto in modo preciso da Le Roy Ladurie nel suo best-seller, Beatrice si contraddistingue per il suo ruolo nobiliare, che è intermittente come le frecce di un’auto; a volte viene sottolineato, per esempio nella scelta dei suoi amanti (prima il prete del villaggio, personaggio controverso, poi un chierico di famiglia nobile… entrambi comunque in odore forte di eresia catara), che furono sempre di buon lignaggio o comunque inseriti all’interno della cerchia di potere, ma di bassa levatura sociale per via dello standard economico di Beatrice, che non si poteva dire particolarmente florido; allo stesso tempo le sue frequentazioni sono quelle tipiche di comare del villaggio, comprese le “amiche di spulciatura”, cioè le donne dalle quali si faceva aiutare a togliere le pulci.

Un altro caso interessante, chiaramente opposto alla povera Beatrice, è quello di Guglielmo il Maresciallo, famosissimo guerriero nato da una famiglia di piccola nobiltà, con doti guerresche e intellettuali notevoli, che passò da una gioventù violenta e vagabonda al tutoraggio di Enrico III nel giro di pochi anni.

La guerra, gli intrighi, le capacità retoriche, il denaro e a volte anche la sorte (e la volontà di Dio, lasciatemi fare questo inciso) contavano quanto e forse più dell’essere di buona famiglia. Anche perché istituti come il maggiorascato, che avviavano il giovane cadetto o la giovane fanciulla alla carriera ecclesiastica nella stragrande maggioranza dei casi – con crisi di vocazione visibili – non erano ancora stati pienamente istituiti, anche se esistevano.

Quindi rimaneva la libertà di formarsi all’interno di quella liturgia di comportamenti costretti dalle circostanze ma liberi nell’esecuzione.

Per approfondire:

Dizionario del Medioevo ed. Garzanti

Georges Duby, Guglielmo il Maresciallo. L’avventura del cavaliere, (trad.ital.), Bari, 2004

Emmanuel Le Roy Ladurie, Storia di un paese: Montaillou, (trad.ital.), Milano, 1977

Parini, Dialogo tra un poeta e un nobile, da Wikisource

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