Cristianesimo e teologia – Capitolo II

1. Diffusione del cristianesimo nel II e nel III secolo.

Grazie a predicatori in costante viaggio, e forse a mercanti, il cristianesimo continuò a propagarsi nelle principali città dell’Impero nel II e nel III secolo, per altro aiutato dalla traduzione dei Vangeli nelle varie lingue locali. La diffusione, se rallentata dalle persecuzioni, fu invece rapida nei periodi di tolleranza. L’evangelizzazione seguì le più importanti rotte, marine e fluviali, dell’epoca, e naturalmente la fitta rete di strade romane. Di particolare rilevanza fu la via che congiungeva Alessandria con l’Ellesponto (gli attuali Dardanelli), attraversando l’Egitto, la Palestina, Tarso, Mileto e Smirne. Da tali città, i predicatori potevano proseguire verso la Frigia, la Lidia e la Caria (aree dell’odierna Turchia occidentale), ove si formarono alcuni dei principali centri cristiani del tempo: Antiochia di Pisidia, Listra, Sardi, Laodicea ed altri. Da questi, la fede si sarebbe ulteriormente diffusa verso Est, raggiungendo i Parti e i loro successori, i Sassanidi. Altra strada di rilievo fu quella che dalla richiamata Alessandria giungeva fino allo stretto che separa il Mediterraneo dall’Atlantico, attraversando l’Africa settentrionale e la Numidia, abitate entrambe da genti che mostrarono da subito favore verso il nuovo credo, al pari di quelle di Creta, di Cefalonia, di Malta, della Sicilia. Fra la fine del II secolo e l’inizio del successivo, i predicatori misero piede anche nella penisola iberica e in Gallia, ottenendo importanti successi. La divulgazione del messaggio cristiano fu accompagnata da un rafforzamento delle comunità già esistenti grazie ad alcuni concili. Fra questi, quello di Cartagine, riunitosi fra il 220 e il 230: i settanta vescovi presenti discussero se ritenere valido anche in ambito cattolico il battesimo impartito presso gruppi cristiani eretici. Gli esiti non sono conosciuti, ma è certo che il problema fu ripreso in altro sinodo, tenutosi a Lambesi (odierna Tazoult, Algeria) intorno al 240.

Caso singolare fu l’evangelizzazione dell’Armenia, regione che sul finire del III secolo non faceva parte dell’Impero romano, pur rappresentandone un protettorato. San Gregorio Illuminatore (†332?), nato proprio in Armenia e deciso a introdurre la religione cristiana nella medesima area, riuscì a convertire e a battezzare il sovrano Tiridate III (†324), dopo sue iniziali resistenze. Questo monarca, nel 301, proclamò il cristianesimo come religione nazionale. In conseguenza, la stessa Armenia è il primo Stato cristiano della storia.

2. Persecuzioni dei cristiani e letteratura apologetica.

Sebbene in modo discontinuo, i cristiani subirono persecuzioni per tutto il periodo compreso fra la reggenza di Traiano (53-117 – imperatore dal 98) e quella di Commodo (161-192). In linea di massima, come rilevato da uno storico contemporaneo, ai pagani «i cristiani dovevano apparire come coloro che avevano turbato la pace di una provincia o di una città con il sottrarre agli dei le onoranze dovute e scatenando, per contraccolpo, la loro ira, come dimostravano le varie piaghe, naturali o sociali, che affliggevano l’impero». Una testimonianza dei sistemi utilizzati dalle autorità romane compare in una corrispondenza, databile intorno al 112, fra Plinio il Giovane (†114) e l’imperatore Traiano, in cui il primo domanda suggerimenti su come comportarsi con il cristianesimo, i cui fedeli rifiutano di invocare gli dei. La replica dell’augusto sovrano fu quella di punire i cristiani solo a seguito di denuncia, se riconosciuti rei e se avessero declinato l’invito di offrire sacrifici agli dei. A questo orientamento si sarebbero adeguati i successivi imperatori, fino al III secolo.

In riscontro alle accuse mosse, a far epoca dal 120 circa, ebbe inizio una vasta produzione letteraria apologetica, che raggiunse vette altissime con san Quadrato di Atene (†129), il quale sostenne che i miracoli di Gesù erano verità e non illusioni, oppure con sant’Aristide Marciano, il quale scrisse che «[I cristiani] non adorano dèi stranieri; sono dolci, buoni, pudichi, sinceri, si amano fra loro; non disprezzano la vedova; salvano l’orfano; colui che possiede dà, senza mormorare, a colui che non possiede. Allorché vedono dei forestieri, li fanno entrare in casa e ne gioiscono, riconoscendo in essi dei veri fratelli, poiché così chiamano non quelli che lo sono secondo la carne, ma coloro che lo sono secondo l’anima […]. Osservano esattamente i comandamenti di Dio, vivendo santamente e giustamente, così come il Signore Iddio ha loro prescritto». Ed ancora con san Giustino martire (†165?), che sollevò proteste contro le ingiustificate persecuzioni, e con san Teofilo di Antiochia, secondo cui i miti pagani erano finzioni, mentre l’inizio e la storia dell’umanità si trovavano nelle Scritture, atteso, anche, che Mosè era vissuto un millennio prima rispetto alla guerra di Troia. Lo stesso Teofilo, per altro, fu il primo ad utilizzare la parola Trinità con riferimento alle tre persone anche divine: Dio, il suo Verbo e la sua Sapienza.

3. Tertulliano: rinvio. Sant’Atenagora di Atene.

Per il vero, il massimo apologeta del II/III secolo è certamente Tertulliano (†235/240?), che contro le repressioni rivendicò, in maniera brillante e robusta, le basi stesse del diritto romano. Tuttavia, questo scrittore ecclesiastico va storicamente considerato nella qualità di padre della teologia latino-occidentale. In conseguenza, sarà trattato in seguito, in maniera abbastanza approfondita, mentre il presente capitolo si conclude con alcuni cenni su altro ottimo apologeta (e buon teologo) del II secolo, sant’Atenagora.

Le informazioni su di lui non sono molte, poiché, per ragioni ignote, è citato poco o nulla da scrittori o eruditi vissuti dopo di lui. Sicuramente era un ateniese, forse retore e filosofo dell’Accademia della stessa città, convertitosi al cristianesimo dopo la lettura delle Scritture, esaminate allo scopo di ricercare argomenti da utilizzare nelle polemiche contro gli apologeti cristiani. Altrettanto certo che Atenagora sia stato l’autore dell’apologia Πρεσβεία περί Χριστιανών, (Presbèia perì Christianòn), ossia Legazione per i Cristiani. Si tratta di un titolo metaforico: gli storici sono concordi nel sostenere che non vi sia stata alcuna reale ambasceria dell’ateniese agli imperatori romani. Per tale ragione, l’opera è attualmente nota come Supplica per i cristiani.

L’apologia è diretta a Marco Aurelio ed al figlio Commodo, «Armeniaci, Sarmatici, ma soprattutto filosofi». Ne discende che l’opera va collocata fra il novembre del 176 – quando Commodo, appunto, fu associato al trono – e la morte dell’imperatore padre, occorsa il 17 marzo 180. In realtà, quest’ultimo aveva ufficialmente abbandonato il titolo di armeniaco nel 175, ma l’autore della Supplica non nutriva alcun interesse per le conquiste romane. Egli, nell’intestazione, intendeva approfittare dell’importanza che Marco Aurelio – correttamente – dava alla propria qualità di filosofo stoico, e quindi di orientamento razionale, determinista, dogmatico ed etico. Così, già agli esordi dell’opera, l’apologeta implora per i cristiani il diritto di libertà di culto, atteso che nell’impero «vi sono vari popoli che si reggono con vari costumi e varie leggi, e nessuno […] è impedito di osservare i patri usi, anche se sono ridicoli». Nel prosieguo, Atenagora domanda che si indaghi sulle accuse mosse ai credenti in Dio. Se queste – ateismo, incesti e cannibalismo – sono vere, li si uccida e li si estirpi «fin dalle radici». Se invece sono infondate, è compito dei sovrani «inquisire sul modo di vivere, sulle dottrine, sullo zelo e sull’obbedienza che abbiamo […] per l’Impero». In sostanza, si investighi sull’attività dei cristiani e non li si condanni soltanto perché definiti come tali.

Contro l’imputazione di ateismo, la posizione di Atenagora è di notevole rilievo. Egli afferma l’esistenza di un Dio unico, «creatore di tutto», che – giusta l’espressione dello storico Étienne Gilson (1884-1978) – «non sarebbe perfetto. onnipotente e onnisciente se dovesse condividere la propria signoria sul creato con altri dei dissimili e discordi da lui». Inoltre, l’unità di Dio, oltre che attestata dai profeti, è stata ammessa da poeti e filosofi del passato, letti e rispettati nel mondo romano. In conseguenza – conclude l’apologeta – non si comprende perché i cristiani, che professano la medesima fede, debbano essere perseguitati.

Meno incisive, ma certamente efficaci, le risposte dell’ateniese alle accuse d’immoralità ed antropofagia. Egli descrive i severi usi dei credenti in Dio, secondo cui anche il solo pensiero cattivo costituisce peccato, il matrimonio è inscindibile e diretto ad avere figli, il diritto alla vita è sacro, tanto da rifuggire i giochi dei gladiatori, la lealtà verso l’imperatore costituisce un dovere.

Oltre che apologista, Atenagora fu anche teologo trinitario. In realtà, egli non sviluppò adeguatamente la nozione di Spirito Santo, definendolo «emanazione» oppure «effluvio» di Dio, già operante nei profeti e che splende o ritorna «come raggio di sole». Quanto al Figlio, invece, l’ateniese lo illustrò come «progenie del Padre» – specificando che non si trattava di un «prodotto» – Verbo del medesimo ed a lui consustanziale. Naturalmente, Atenagora non utilizzò l’aggettivo ὁμοούσιος (homooùsios), che significa appunto consustanziale e che sarebbe emerso diverso tempo dopo. Tuttavia, fu esplicito nel definire il Padre e il Figlio «una cosa sola». Ed aggiunse che «essendo il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio per unità e potenza di spirito, [il] Verbo del Padre è il Figlio di Dio».

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